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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

LE FIERE DELLA NOSTRA TRADIZIONE

Letture: 659               AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)        

Ricorderanno i cortesi lettori che parlavamo di “Nundinae” dell’Impero Romano. L’Impero cadde;
seguirono Ostrogoti e Bizantini e Longobardi; Normanni e Svevi e Angioini e Aragonesi; vicereame
spagnolo; Regno di Napoli poi Due Sicilie; Regno d’Italia, per venire a oggi. Molte vicende, molti
re, molte guerre; e cambiarono lingue e usi… ma non cambiarono le fiere, che per tutti quei secoli
furono la principalissima occasione di commercio; e, vedremo, di incontri. E che non sono del tutto
finite nemmeno in tanto dilagare di centri commerciali e negozi e commercio in internet.
A ben vedere, non è che alle fiere si spenda tanto di meno che ai negozi; e nemmeno si trova
roba che non compreremmo altrove. Eppure i mercatini e le fiere conservano un fascino che ha
qualcosa di arcano, e richiede una spiegazione di natura antropologica. La fiera, infatti, prima
di un fatto economico, è squisitamente un fatto sociale; è, direbbero i Greci, una “panèghyris”:
radunanza di tutti.
C’è intanto una sacralità dell’occasione, ed è il legame tra la fiera e qualche sentita festività
religiosa; donde la parola, oggi molto comune, “kermes”, di origine olandese, che vuol dire proprio
festa “dopo la Messa” di una liturgia straordinaria, o anche domenicale. La devozione ai santi
induceva ai pellegrinaggi di intere famiglie, che, dopo i riti e le preghiere, acquistavano o vendevano;
e si dovevano rifocillare. Ogni paese aveva la sua festa e la fiera, e la sequenza corrisponde a quella
delle ricorrenze patronali. E forse qualcuno provvide a un accorto calendario della bella stagione,
per il quale difficilmente le ricorrenze di paesi vicini si venissero a sovrapporre; e per consentire e ai
“ferari” e ai pellegrini avventori di partecipare senza necessità di scelta.
Le fiere sono, infatti, degli ambulanti. Oggi questi dispongono anche di esercizi fissi nei propri
paesi; allora il commercio lo gestiva il girovago: nella Calabria Centrale, “u mercanti”; nel Reggino,
“u bazzariotu”, curiosissima parola in cui convivono il suffisso greco di appartenenza –tes (è
comunissimo in dialetto: “u satranotu”), e la ben nota parola araba “bazar”.
Si comprava in fiera tutto ciò che non si produceva nell’economia domestica e locale, e che aveva
origine in attività industriali e di artigianato raffinato. Come canta la simpatica canzone napoletana,
“jiva vindendu spingule francese”, spille da balia, che nessuno avrebbe saputo o voluto produrre in
paese. Così certi tessuti o guarnizioni e merletti, bottoni e altro, si trovavano solo alle fiere. A loro
volta, i paesani vendevano le eccedenze dei tessuti non necessari alla famiglia; le donne spesso
vendevano i capelli in eccesso.
Un commercio importante era quello degli animali da lavoro e da reddito: asini, muli, qualche
cavallo; bovini; pecore e capre; bestiame minuto e da cortile… Alcune fiere, come quella di s. Biagio
a Chiaravalle, erano specializzate in lattonzoli di maiale.
Ancora fino agli ani ottanta, la “Fera de’ nimali” di Soverato attirava l’intera Calabria, ed
era uno spettacolo. Ogni tanto, qualche bestia s’imbizzarriva: in dialetto, “sferrava, strambava”,
e strambe nel senso di pastoie si trova in Dante. L’animale poteva patire “a musca”: il tafano,
eufemismo per estro!
Mercanti di cavalli e di ferro erano gli Zingari, temuti e attesi. Essi vendevano, ma sapevano
anche leggere la mano e fare o evitare sortilegi. Celebre era il raduno di Riace per i SS. Medici,
dove gli Zingari, con il re o regina di turno, veneravano i santi… o chissà, in segreto, quale loro
arcaica credenza?
Di solito, nei paesi, si praticava “u scangiu”, sia delle merci sia del lavoro. Alle fiere, era più
pratico il denaro. E ancora oggi, in detti e canzoncine popolari, resta la parola “tarì”, dall’antichissima
moneta araba; se no, tornesi, carlini, grani; poi lire e soldi e centesimi; ed euro.
La “panèghyris” offriva ogni occasione d’incontro. Comparivano i “tiatranti”, gli ultimi istrioni
della Commedia dell’arte: e, come ad autore e attore di strada, consentitemi di chiamarli colleghi.
Qualcuno se ne sentiva affascinato; e giovanotti di buona famiglia (non faccio nomi!), per noia, o
per improvviso amore di bella e disinvolta guitta, “sa fuja cu i tiatranti”, per tornare poi povero e
pentito… o soddisfatto?
Per l’avventura, non serviva, necessariamente, scappare via. Alla fiera si tenevano giochi
d’azzardo, di carte, di dadi, d’incanto di oggetti… e qui era indispensabile “u zaraffu”, che fingeva
di perdere per adescare clienti a speranze di vincita.
Una figura spaventosa e magica era “u sampaularu”, che vendeva antidoti contro i serpenti; e in
una cassetta a tracolla ne mostrava di vivi. Doveva il nome a un miracolo di s. Paolo Apostolo.
Si potevano incontrare musicisti e saltimbanchi e giocolieri e maghi… e, come è ovvio, ladri e
tagliaborse. E ce n’era anche per il gentil sesso, anche troppo gentile. In mezzo a tanta gente, non
tutto era tanto idilliaco. Sorvoliamo.
I giovani secondo e terzogeniti andavano di paese in paese per trovare fortuna e lavoro, e, alle
fiere, qualche occasione di matrimonio. Adocchiavano qualche fanciullina; questa fingeva di non
accorgersene; entrava in gioco la comare del Battesimo; poi la mamma e le zie e la nonna; infine, ma
a cose fatte, il padre padrone, detto poi dal genero “u misseri”. Lo sposo veniva a vivere nel paese
della sposa, e lo attestano tanti cognomi in –oti. Indovinate? Ecco un’altra funzione delle fiere.
Chiudiamo con cenni a due argomenti che meriterebbero altro spazio. Le fiere richiedevano
logistica, organizzazione, ordine pubblico e spese. Federico II di Svevia istituì sette grandi fiere del
Regno, una di queste a Cosenza.
Nei centri maggiori, entrava in carica il mastrogiurato, che nei giorni di mercato deteneva la
massima autorità. Spesso, per la gestione della fiera e relativi diritti ed entrate, c’era interminabile
conflitto tra feudatari, vescovi e sindaci.
Alcune fiere si svolgevano in istallazioni fisse di muratura, con strutture prese in fitto dai mercanti.
Per restare nella Calabria Ionica, ricordo quelle di Mesoraca, Crotone, i Mercati Saraceni di Cirò
Marina, e il vastissimo complesso della “Fera Vecchia” di S. Severina, dove si teneva la fiera di S.
Giovanni Minagò o Monaco.
Ci saranno ancora le fiere? Pare per ora che l’abitudine resista, e chi vivrà… chi comprerà, vedrà.


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